Domande

Una semina di domande aperte che cadono dal cielo in questi giorni. Possiamo ancora ragionare in termini di patria? Cosa implica il concetto di “patria”? Può oggi non interessarci una guerra che si combatte in altri confini lontani dai nostri? Come siamo interconnessi? Quali interessi muovono gli Stati? Cosa possiamo fare noi cittadini? Abbiamo davvero superato la logica dei due blocchi? Da quale prospettiva si usa la parola “autodeterminazione”? E la parola “difesa”? E la parola “resistenza”? Come, questa guerra, ci fa riflettere sul concetto e sull’esistenza dell’Unione Europea? Come, questa guerra, ci fa riflettere sulla storia occidentale e orientale?

E’ un momento estremamente duro, non perché siamo atterriti e sorpresi dall’avvento dalla guerra ma perché questa guerra toglie il velo a situazioni che i media non raccontano e mette in evidenza strategie e controsensi della politica e della economia mondiale. In questo momento estremamente duro, mi sono chiesta cosa pensassero i palestinesi sotto occupazione di ciò che sta succedendo in Ucraina.

Me lo sono chiesto perché la situazione palestinese è a me cara, perché c’è una situazione di apartheid che si suppone debba interessare solo i palestinesi ma che, in realtà, non è esattamente così, e perché sogno la fine dell’occupazione di un territorio dove sono andata fortunatamente con i miei piedi e i miei occhi e nel quale si continua a praticare un turismo religioso che non sembra non rendersi conto del tempo presente vissuto nel posto. Me lo sono chiesto perché non esiste una guerra sola e perché diventa impensabile oggi credere di non avere la propria parte di responsabilità.

In questa ricerca, iniziata con lo scopo di capire se da diverse prospettive la narrazione è sempre la stessa, mi sono imbattuta negli articoli di Memo, nello specifico nell’articolo di Motasam Al Dalloul, sull’ipocrisia delle scelte FIFA e EUFA nei confronti delle squadre russe e nell’articolo di Asa Winstanley sul momentaneo blocco degli sfratti di Israele nei confronti delle case palestinesi e sulla possibilità di ripresa degli sfratti, in occasione dell’attenzione puntata sull’Ucraina.

In ogni articolo, si parte dal presupposto che la guerra in Ucraina è con decisione rifiutata, proprio perché la guerra la si conosce, non è un mostro del passato ma una azione del presente. Comprendere il punto di vista di chi parla è importante per filtrare le parole, o meglio, comprenderle. Le riflessioni e le esperienze di chi si esprime, portano a rivalutare una informazione unilaterale sulle cose o, quanto meno, a metterla in discussione. E la questione che mi sembra di imparare è che ci sono altri punti di vista e dovremmo apprendere un modo per poterli confrontare.

Non sono una esperta di calcio, anzi, a dirla tutta, la spettacolarizzazione calcistica mi fa abbastanza rabbrividire, ma lo sport mi piace. Ciò che mi colpisce dell’articolo di Motasam Al Dalloul è di come rifletta sulla parzialità delle decisioni prese da queste due organizzazioni che si sono sempre ritenute al di fuori della politica, molto attente alle dichiarazioni di giocatori e giocatrici, qualora si prendessero apertamente posizioni politiche riguardo a determinati eventi. E allora, si chiede Al Dalloul, come mai si sono prese delle decisioni rispetto a Mosca e non si prendono decisioni simili nei confronti di Israele, che perpetra uno stato di occupazione e ghettizzazione dei palestinesi da anni?

E’ una domanda. Se vogliamo è una domanda legittima, che almeno dovrebbe farci riflettere senza smettere di pensare che, in ogni caso, la guerra in Ucraina è un insulto alla dignità umana. E’ una domanda che ci mette di fronte alle nostre imparzialità, davanti alla nostra poca obiettività, quando si parla di storia, di guerra, di colonizzazione, di politiche estere, di territori e confini.

Nell’articolo di Asa Winstanley invece, si tratta di uno sfratto. Cosa che non ci scandalizzerebbe ormai più di tanto se si trattasse di uno sfratto in Italia ma che è cruciale in quella guerra di occupazione che Israele attua attraverso la logica dei coloni. E cosa c’entra con l’Ucraina? C’entra. Perché l’autore dell’articolo si chiede come lo Stato di Israele stia sfruttando questo spostamento di attenzione nello scenario mondiale, a suo vantaggio, per riprendere gli sfratti indiscriminati sul questo vecchio territorio ormai da decenni martoriato. Anche questa è una domanda possibile attorno ad un bisogno primario di esistenza: la casa.

La casa. La casa con la sua legittima domanda di esistenza. Il posto dal quale poter partire e dove poter ritornare. E ora un ennesimo territorio devastato sul quale giocano interessi molto grandi e, nella loro mostruosità, banali. Banali come intendeva banale il male Hanna Arendt.

Altra domanda che mi è balzata nella testa è sorta quando ho appreso dell’obbligatorietà, per i cittadini ucraini maschi, di non lasciare il paese per difendere e combattere contro i soldati russi. Mi domando: può uno stato obbligare un proprio cittadino a combattere? E’ successo in Ucraina ma questo non vuol dire che non potrebbe succedere anche da noi. Anche questa è una domanda, non d’accusa, ma un tentativo di capire come siamo, come reagiamo, come scegliamo. Mi sono imbattuta allora, nell’articolo di Nils Adler per Aliazeera. Un articolo molto interessante sull’esperienza di una sorella che ha dovuto lasciare il proprio fratello diciottenne alla frontiera ucraina con la Polonia, per l’obbligo imposto ai maschi ucraini. La narrazione nell’articolo è molto neutra, non ci sono toni esasperati. Attraverso questa narrazione semplice è come se vedessi questa sorella che ha visto il proprio fratello tornare in Ucraina per combattere, accompagnato dalla madre anziana, tornata con figlio indietro per non lasciarlo solo. Tutto ciò raccontato con una semplicità quasi disarmante. Se penso a mio fratello, mi sento di impazzire. Se penso a questa obbligatorietà di difesa non riesco a non chiedermi se è giusta o sbagliata. Se essere in guerra giustifica l’obbligo.

Riporta Adler, le parole della ragazza intervistata:

Avrei potuto fare qualsiasi cosa per tenerlo con me. Avrei pagato, ma cosa potevo fare?” “Non credo sia umano chiamare tutti gli uomini a combattere, forse alcuni sono malati o hanno problemi di salute mentale“.

Ma non è solo questo. Non solo.

Le domande si affastellano nella mente e qualche domanda ha risposta, altre no. Interrogativi a cielo aperto che mettono in discussione il nostro modo di vivere, di concepire le relazioni nelle comunità e tra le comunità, in questa torre rotonda di Babele che quando vuole comunicare riesce a trovare i modo per farlo.

(Nell’immagine: casa disegnata da bambina https://www.tau-lab.com/casa-dolce-casa/)

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