“La crudeltà ci colse di sopresa” di Choman Hardi, poetessa curda

“Seduti intorno a un vecchio tavolo
tracciarono linee sulla carta geografica
e divisero quello
che avrei chiamato il mio paese”
“Losanna, 1923” di Choman Hardi

Sulaimaniya. Attraversando il Kurdistan iracheno siamo passati attraverso pozzi di petrolio. Si vedevano, distanti, dalla strada che percorrevamo, lingue di fuoco in un paesaggio desertico. E poi caldo e poi l’aprirsi degli occhi e poi il ricordo si dissolve all’interno della Cittadella di Erbil e alle voci del teatro.

Era il 2012 quando con la mia compagnia, andammo ad Erbil per presentare uno degli spettacoli più belli che ho avuto modo di costruire all’epoca: Persae, la storia di una sconfitta, di una sconfitta che include tutte le parti che muovono una guerra. Persae come persiani e come perduti. Eravamo all'”Hawler International Theatre Festival” di Erbil e ricordo di aver preso anche uno dei più clamorosi virus intestinali della mia storia. Ma ero felice, felice di poter cantare per la gente sconosciuta, di quel luogo che toccavo con mano, “A curuna” di Rosa Balistreri.

Quando si parla di Kurdistan, ho sempre qualcosa, come una mano, che mi tocca lo stomaco. Questo succede perchè, a mio modo, ne ho una memoria concreta. Succede anche quando penso alla vecchia casa di mia nonna nel quartiere Libertà di Bari, a Sebastya in Palestina, al mercato immenso di Wroclaw in Polonia. La memoria risveglia parti del corpo, percependo vicinanza e mancanza.

Kurdistan dunque. Perché voglio scrivere di un piccolo libro, Edizioni dell’asino, che è un gioiello prezioso, per chi si occupa di poesia: La crudeltà ci colse di sopresa, 2017, della scrittrice Choman Hardi. Piccola antologia che unisce estratti dalle raccolte: Life for us 2004 e Considering the women 2015.

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Choman Hardi nasce in Sulaimaniya, nel Kurdistan iracheno, nel 1974. Sono tante e purtroppo nefaste le date che contrassegnano la sua vita e che corrispondono a date importanti per un popolo intero. Il popolo “dimenticato e che nessuno ricorda” come lei stessa scrive, il popolo dei curdi divisi nei confini di quattro stati differenti: Iran, Iraq, Turchia, Siria. Un popolo le cui donne, stanno cercando, nello stesso contesto di una guerra ancora in atto, di rivoluzionare un pensiero basato sui vecchi modelli del patriarcato. Ma questa è un’altra storia e la si racconterà un’altra volta.

Le date: 1975 accordi di Algeri per la risoluzione dei conflitti tra Iran e Iraq e per sedare la ribellione curda, la famiglia di Hardi scappa in Iran; 1979 ritorno in Iraq dopo l’amnistia; 1988 la campagna di Anfal con il genocidio di Halabja attraverso armi chimiche, per cui la famiglia scappa nuovamente; 1993 profuga in Inghilterra dove riesce a studiare presso l’Università del Kent, gli effetti della migrazione forzata sulle donne curde provenienti da Iran e Iraq.

Tutto queste date possiamo ritrovarle nelle poesie de La crudeltà ci colse di sopresa. Choman Hardi, attraverso un linguaggio estremamente concreto ci coglie di sopresa nel narrarci poeticamente la quotidianità della guerra. La bellezza poetica, attraverso la traduzione di Paola Splendore, si unisce alla crudeltà delle immagini, alla semplicità di gesti che legano una casa alla montagna, la montagna agli alberi, gli alberi al pane, il pane alla voce.

Gas dal cielo: 16 marzo 1988

Non c’è quiete a Halabja, anche se dovrebbe esserci.
Ritorno dalle mntagne insieme a tutti gli altri.
Perché si vuol sapere?
Si vuole vedere per credere?
Perché non si riesce a dimenticare?

Metà delle case sono ancor in piedi
e le altre, puoi vedere quello di cui erano fatte-
mattoni e cemento, porte e finestre
carne e sangue.

Dappertutto urla e lamenti
di chi ritrova i corpi dei suoi cari-
bambini che erano riusciti a sfuggire dai cortili
ed erano morti sui gradini di casa,
la schiena di un uomo e il viso di un neonato sotto il braccio.

Sono tutti morti, dice il mio vicino.
Vuole farmi vedere la sua famiglia.
Ci sono giornalisti che scattano fotografie,
e uomini che derubano i cadaveri
il cielo è limpido-
tutto è morto ora, non può più essere ucciso.

Sono qui che guardo, staccata da ogni cosa,
credo enon riesco a credere.
Il mio vicino impazzirà, si ucciderà la settimana dopo,
una donna che non trova la figlia
la cercherà fino alla morte,
l’uomo che aveva lasciato la famiglia
vivrà in un suo inferno
l’Imam che sempre invitava alla preghiera
si darà presto al bere.

Sono qui che guardo, piango e non riesco a piangere.
So di non sapere nulla,
che non saprò mai nulla,
e so che questa rovina è la sola cosa che mi resta.

Questa poesia è tratta da Life for us e come tutte le poesie di Choman Hardi, presenti nel libretto, esse sono chiaramente una testimonianza sia di una esperienza personale sia della esperienza di un intero popolo. Come scrive Hevi Dilara, “la poesia ha sempre avuto un ruolo importante nella storia del popolo curdo. Poiché era vietato tramandare la sua storia, la poesia ha assunto un ruolo molto importante che continua ad avere per le nuove generazioni“.

La propria terra non è propria perché attraversata da smania di possesso ma perché diventa “propria” nel tessersi di relazioni molteplici che vanno da albero a persona, da persona a persona, da persona a fiume, a montagna, a legami d’affetto, a un particolare cielo. Il tessuto della terra in cui si è vissuti sarà sempre importante per un essere umano. Cosa accade quando si è forzati a lasciare la propria terra? Cosa succede nelle dinamiche della fuga e del ritorno? Cosa succede quando persino i fantasmi sono perduti?

I nostri diversi mondi
da Considering the Women

Ci sono tornata cercando una nazione
e ho trovato solo frammenti-
tribù, regioni, dialetti, religioni.
Ci sono andata per fare una nazione e sono
tornata espropriata, piena di divisioni.

Non ha capito perché ho lasciato
te, la nostra casa, le strade eleganti,
sono partita di notte in un aereo affollato
per un posto dove tutto è razionato-
acqua, potere, ricchezza, amore.

Ho preso strade sterrate, dissestate
verso villaggi pieni di fantasmi perduti
per ascoltare donne sconosciute
raccontare come tutto era accaduto,
perché continua. Non hai capito

perché tornavo sempre a polvere e distruzione,
a quei cuori spezzati che mi straziavano il cuore.
Eri stufo di vittime,
hai detto, stufo di me perché
non riuscivo a essere felice.

E io ero incapace di spiegare perché
tornavo sempre lì ad ascoltare e ascoltare
finché i miei sogni sono diventati incubi,
e l’amore solo gesti assenti
di un corpo stremato.

Choman Hardi, attraverso la poesia, diventa portavoce delle esperienze delle donne, degli uomini e dei bambini che hanno vissuto la medesima teoria di violenza e stragi. In alcuni testi l’io narrante si appropria dei nomi dei sopravvissuti, come in La sopravvissuta ai gas che richiama i nomi di Badria Saeed Khidir, Nakhsheen Saeed Osman e Rabia Muhammad Ibrahim:

Il mio corpo è un fiore. Perdo petali ogni notte
e il materasso diventa un letto di rose – nere,
rosso-ciliegia, rosa e oro. Di giorno lavo
gli asciugamani, ricordo il bambino nato morto dopo i gas.

Chi avrebbe pensato che esistono armi
che ti mettono contro ogni parte del tuo corpo?
Ogni livido, colpo di tosse, sangue dal naso sono come
l’ultimo tradimento? Armi che ti trasformano

in un essere disrezzato nel tuo stesso villaggi, nessuno
ha più il coraggio di venirti a trovare, temono di essere contagiati.
Armi che ti uccidono anni dopo che sei stata esposta,
e ti impediscono di incolpare qualcuno per la tua morte?

Estrema vicinanza che non si può fare a meno di cogliere con i racconti delle vittime e dei sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki. La storia si ripete e gli uomini sembrano non avere memoria.

Nonostante tutto il dolore e la sofferenza, nella poesia di Choman Hardi, si può cogliere l’estrema urgenza della vita. Assieme alla morte, memoria del passato e purtroppo anche testimonianza del presente, respiriamo il ritmo della vita dato proprio dagli elementi di quotidianità e di piccola esistenza che affiorano tutt’intorno al sangue: i fiori, l’albero di gelso, le pentole arrugginite lascito di una madre sempre in esilio per la figlia, i cinque dinari promessi se si riesce a sopravvivere, i beduini che insegnano l’arabo ad un bambino curdo scappato dal massacro, le vecchie canzoni, l’aria azzurra, il cielo, le montagne assetate…

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Elementi primari che hanno nutrito l’infanzia e che la guerra può però mutare, laddove anche: “Gli alberi erano colpevoli/ di rendere il paesaggio un pò più fresco e più attraente./ Colpevoli di essere diventati luoghi di riposo/ per gli uomini che scendevano solo di notte” (da Montagne verdeggianti in Life for us).

Vorrei concludere questo piccolo viaggio nei versi di Choman Hardi con una ultima poesia, sempre tratta da Life for us, una poesia che riporta alle mani di una umanità che non riusciamo più a guardare e di cui ognuno di noi ha una enorme responsabilità. Una responsabilità che risiede nel mutare rapporti secolari tra le cose del mondo e nel risvegliare un senso diverso di umanità, la stessa che Vittorio Arrigoni esortava, nel suo sempre valido richiamo, “Restiamo Umani”.

Le mani di mia madre

Quando le bacio le mani rugose ora
odorano di aglio, di cipolla e dei lavori di cucina.
Anni fa quando era più giovane
e noi eravamo ancora a casa
a volte le sue mani odoravano di pane.

Quei giorni si alzava al sorgere del sole
si copriva la fronte con un fazzoletto bianco
e lavorava l’impasto finché non era liscio.
Sentivamo il sibilo del paramez
mentre caricava l’olio
per regolare la fiamma sotto la teglia.

Poi si metteva a sedere sul pavimento
la gamba destra piegata sotto il corpo
e l’altra allongata sotto la pinna.

Si dondolava avanti e indietro
mentre muoveva il matterello sotto i palmi
spianando la pasta per i nan
che infornava e impilava nella credenza.
Per giorni i palmi le dolevano e restano gonfi.

Altre volte le sue mani odoravano di carne.
Ci volevano ore per tritarla a mano.
Ne friggeva la metà con cipolle sminuzzate
mandorle bollite, uva passa e erbe:

l’altra metà la mischiava con farina di riso
e preparava l’impasto per i kifta.
Apriva la pasta nel palmo della mano sinisra
e la riempiva di carne fritta.
Ogni volta erano cinquanta grossi kifta-
dopo riusciva a mala pena a camminare.

Nelle sere d’autunno quando ci riunivano accanto al fuoco
le mani di mia madre odoravano di arance.
Era il frutto preferito di mio padre,
anche se era sempre lei a doverlo sbucciare.

**L’immagine banner dell’articolo è tratta da un dipinto della stessa poetessa Choman Hardi.

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