Nella nota poesia di Giacomo Leopardi, il “naufragar” non voleva certo coincidere con il morire. Piuttosto il naufragar era sensazione di uno smarrimento di sé nell’infinito del mondo, che dava adito ad una forza di liberazione del proprio essere/esserci non legato ai limiti fisici della carne, del pensiero, delle contingenze sociali e dei limiti geo-politici.
Dopo aver gozzovigliato a lungo nelle pance, nei reni e nelle teste delle comunità e dei paesi che un tempo coesistevano sui vari continenti; dopo aver stuprato, derubato, diviso, assoggettato; dopo aver cercato di comprendere errori, propri e altrui; dopo lotte di resistenza; dopo la violenza dell’imposizione delle varie ideologie; dopo aver analizzato individuo e collettività, società e individualità; dopo aver succhiato il succhiabile. Dopo tutto questo, mi rendo conto che c’è ancora tanto da comprendere sulla storia e sul comportamento umano; c’è tanto da comprendere sulle dinamiche del colonialismo per nulla sopite; c’è tanto da comprendere su come l’essere umano alimenti una società basata sull’odio e sul non-stare-bene piuttosto che remare in direzione “ostinata e contraria”.
La trincea Stato-Nazione è una vecchia istituzione non al passo con i tempi odierni, che ognuno può prontamente risvegliare, con tutto quello che si porta dietro: cittadinanza, diritti e doveri del singolo, relazione con la collettività, lavoro. La storia convive con il presente e noi siamo una grande forza capace di modificare le cose oppure di portarle verso l’esasperazione e la distruzione.
Ci sentiamo aggrediti se delle persone che stanno subendo guerre e violenza e fame si muovono attraverso mari e terre per cercare una possibilità di vita. Ci sentiamo aggrediti senza comprendere che l’aggressione è avvenuta prima, molto tempo prima, in quelle terre dalle quali le persone scappano. La storia del colonialismo italiano non è lettera morta ma è forza pulsante che scorre nei gesti del corpo. Un corpo che abbiamo ereditato ma è capace di trasformarsi nel presente per una diversa prospettiva.
Libia, Etiopia, Eritrea…alcune parole tornano…e gli uomini sono pronti a vessare gli uomini, pur di rimanere attaccati alle proprie conquiste di potere. E parliamo di una piccolissima fetta del mondo perchè piuttosto che placarsi, i conflitti sono aumentati e si sono diffusi e le responsabilità ora sono reciproche e cicliche.
Se non è possibile convivere in un diverso assetto comunitario dove coabita chi un tempo era carnefice con chi è stato vittima, allora siamo destinati a soccombere tutti perchè la vittima diventerà a sua volta carnefice in un ciclo infinito di violenza. Perchè la convivenza non significa neanche “perdono”. Il sogno di vedere una Palestina libera presupporrebbe una nuova coltura di donne e uomini che ridiscutono la loro appartenenza per re-inventare una nuovo humus di coesistenza, dove la violenza subita non diventa a sua volta arma.
Ma è possibile dimenticare le ruspe che hanno strappato e strappano i limoni e gli ulivi? E’ possibile dimenticare l’umiliazione, l’uccisione, l’oppressione? O forse…non si tratta di dimenticare….
Io non ho risposte ma chiaramente riesco a distinguere chi semina una cultura fondata sull’odio, l’esclusione, il razzismo. Non sono neanche “esterofila” di posizione. “La cultura dell’altro” non è la via possibile, perchè siamo esseri-in-relazione ed è impossibile per me pensare di possedere una via giusta e intoccabile rispetto a ciò che si muove attorno.
La cristallizzazione degli stereotipi che riguardano le persone sono già chiari segnali di qualcosa che diventa duro, che non crea relazione ma muri e posizioni dove l’unica scelta data è stare fuori o dentro.
Nel 1883, a Genova, arrivò una nave nuova di zecca, adibita al trasporto di migranti: migranti italiani. Nel 1906 la nave salpò da Genova verso Brasile, Uruguay e Argentina. Nei pressi di Capo Palos “il piroscafo stava procedendo a velocità sostenuta verso Cartagena quando, all’improvviso, la chiglia urtò violentemente contro una secca sommersa. La prua della nave si innalzò repentinamente e la poppa iniziò ad inabissarsi”. Il naufragio inizia e arrivano soccorsi da imbarcazioni francesi, spagnole e dal cargo croato “Buda”. Sul Sirio non vi erano solo migranti “regolari” ma anche clandestini, clandestini spagnoli saliti a bordo durante scali non proprio autorizzati.
Un naufragio certo diverso da quelli che i giornali e le televisioni “raccontano” oggi. Eppure ricorda una storia già vissuta, una storia che è nella memoria dei nostri corpi ora.
Allora morirono, secondo una stima ufficiale, circa 293 persone, ma si stima un numero realistico di 500 persone.
Persone, appunto, non “migranti”. L’accoglienza non è che una piccola parte di un sistema abbastanza marcio in cui si cola a picco. Ma si preferisce incanalare l’attenzione di una comunità verso “un problema”, verso “l’altro”, verso coloro che figurano meglio nel ruolo di “nemico”. Un sistema, il nostro, almeno a livello Europeo, da ridiscutere, in cui dovremmo ripensare legalità, cittadinanza, lavoro, sfruttamento, cooperazione, relazione.
E’ da ripensare il legame con la terra stessa, a partire dalle piccole cose, a partire da noi, ciascuno di noi. Studiare la storia non è un mero esercizio di memoria ma una forma di risposta corporea, dove la memoria diventa azione in relazione al presente, per poter dare senso differente a parole che sono legate oggi solo a morte e odio. E in questo, in tutto questo, la cultura e lo studio giocano un ruolo fondamentale.
Per poter arrivare al pensiero che sì, “naufragar m’è dolce in questo mare” per poter esplorare “infiniti spazi” al di là del proprio e del circoscritto, senza pensare che la terra sia inospitale, sconfitta, implosa o che appartenga a qualcuno.
L’Infinito
“Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.”
Giacomo Leopardi