“Le rose, tutte le rose, tutte le rose, desidero sentire il profumo di tutte le rose,
sciogliermi in esso”
Sono stata lungamente una lettrice accanita di romanzi, passando le estati sul letto e leggendo. Ma la poesia è la parola incarnata. La parola che mangi come mangeresti petali di rose, facendo che sia rosa, il corpo, la pelle, la voce. La poesia è per me la pancia, il sesso, l’occhio e le mani.
La poesia è un modo di vivere, è una condizione dell’essere, ed è capace di aprire mondi, di far entrare dentro il microcosmo che siamo, i tanti e tanti riflessi, segni, sfumature che appartengono alle moltitudini della vita.
“Amo le sue moltitudini”, scrissi tempo fa, e le amo ancora. Amo le moltitudini che fanno casa e passaggio nella parola poetica come nella vita.
Ma la poesia non la puoi insegnare, essa è, si sente. Si possono fare tante e tante piccole azioni per portare la poesia al cuore della gente ma la rivoluzione parte dal di dentro. Apriamo delle piccole serrature, facciamole scattare affinché si aprano porte, ma in quella stanza, bisogna entrarci da sé.
Il mio lavoro, consiste anche nel portare e far conoscere. Parto sempre da quello che amo, da Forough Farrokzad, da Assia Djebar, da T. S. Eliot, da Joyce Lussu, da Amelia Rosselli, da Sylvia Plath, da Anna Maria Ortese e l’elenco potrebbe continuare ben oltre. Perché ogni donna, ogni uomo è uno scrigno, è una storia, è una traccia, è un frammento.
Mahmoud Darwish è uno dei poeti da me più amati. Da poco ho sul mio letto il suo “Il giocatore d’azzardo”, edito da Mesogea, con testo arabo a fronte. Un libro bellissimo, per estetica ma soprattutto per le parole del poeta. All’interno vi è il lungo poema, costruito in 6 sezioni, “Il giocatore d’azzardo”, poema scritto due anni prima del 2008, anno della morte del poeta.
Darwish in diverse interviste ha sempre detto di non poter scrivere una autobiografia perché già contenuta nei suoi scritti. Ed è così per Il giocatore d’azzardo. Un lungo poema autobiografico cucito e intessuto di splendide immagini poetiche, di pezzi di vetro e osso, di vita, di casa, di esilio, di cecchini che ti mirano alla fronte, di alberi di limone e di ulivi.
https://www.youtube.com/watch?v=LY6vahB_wyA
Perché la poesia è non solo sensi e significato ma anche suono della lingua, lingua.
“Qui, tra schegge di cose
e di nulla, viviamo
ai margini dell’eternità.
Giochiamo a scacchi, a volte,
incuranti dei destini dietro la porta.
Siamo ancora qua
a costruire da macerie
colombaie lunari”
Così inizia la prima sezione Qui, ora, qui e ora de Il giocatore d’azzardo. Dirompente come un sogno che emerge dalla cenere, come “colombaie lunari” costruire dalle macerie.
Le macerie sono quelle della Palestina, forse quelle stesse della casa e del proprio villaggio distrutto dall’occupazione israeliana. Ma le macerie sono anche le stesse che noi seminiamo sotto e attorno a noi. E il mito della fenice, così antico e così forte, ci dona il sogno di una vita che risorge dalle proprie macerie.
Questa stessa vita che richiede, per la sua sopravvivenza, il vivere perdite e abbandoni. Ma la rosa, è lì. Anzi qui e ora. “Vivi, restiamo, e il sogno continua”.
Il giocatore d’azzardo è un poema dove risuona il martellante gioco del passato e del presente, della dimenticanza e del ricordare.
“Non dimentico né ricordo il passato,
perché nasco ora, così, da ogni cosa.
Fabbrico il passato quando l’aria ha bisogno di eredi
che la polvere consuma. Sono nato senza intoppi,
come gli sciacalli, le salamandre, i corvi”
Non si tratta di sospensione tra il ricordare e il dimenticare o tra il passato e il presente ma di una condizione lucida di passaggio e di transito, che un poeta in esilio conosce bene, come possibilità di essere in vita, di stare nella vita.
Ed ecco che le stazioni divengono luogo di elezione dove realizzare questo transfer del tempo e del vivere:
“Mi sono fermato alla stazione non per aspettare il treno,
né i sentimenti nascosti nell’estetica di cose lontane,
ma per sapere com’è impazzito il mare e come si è frantumato il luogo pari a giara di terracotta,
per sapere quando sono nato, dove sono vissuto
e come gli uccelli migravano a sud o a nord”
In questa sezione centrale del poema Alla stazione di un treno caduto dalla mappa, entriamo nel cuore della storia stessa di Mahmoud Darwish, storia che incontra la storia del proprio popolo:
“Da buoni e ingenui dicevamo: Il paese è nostro,
è il cuore della mappa, nessun malanno esterno lo colpirà.
Il cielo era generoso con noi, che parlavamo arabo classico
solo raramente: nelle preghiere e nelle notti del Destino.
Il nostro presente ci teneva compagnia: «Insieme viviamo», mentre il nostro passato ci confortava:
«Se avrete bisogno di me, tornerò». Così, da buoni e sognatori,
non vedemmo il futuro rubare il passato, sua preda, e andarsene”
E in questo narrare l’inizio cogliendo la fine, si inseguono splendide figure poetiche che fanno parte della cultura letteraria araba e della cultura dei luoghi del Mediterraneo: gazzelle, colombe dal collare, limoni, ulivi, palme, mandorli.
Poi ancora l’uomo: “(Ospite di me stesso, sono)”. Scritto così, in parentesi, quasi in sordina ma successivamente ripreso e ampliato:
“Io sono ospite di me stesso. Questa ospitalità
mi opprimerà e mi rallegrerà fino a soffocarmi in gola il discorso
fino a soffocare le parole con lacrime riottose. I morti bevono
la menta dell’immortalità con i vivi, non si dilungano
sulla resurrezione”
E’ una ferita che si concretizza attraverso l’immagine di un treno “caduto dalla mappa” mentre, tutto intorno, volano colombe.
Giunti alla sezione Il giocatore d’azzardo, l’io del poeta è completamente messo a nudo. Nessuna velatura può esserci in questo gioco dove a volte si perde, a volte si vince; dove si nasce con un nome avuto per caso, dove maschio o femmina è un fiore nato per caso, senza scelta, senza decisione. Dove ci si ritrova come dei sopravvissuti, per caso, nel nero delle macerie.
“Sono andato a nord, ho percorso il mondo da est a ovest,
quanto al sud, era lontano e riottoso,
perché il sud è il mio paese.
Così sono diventato metafora di rondini per librarmi sopra i miei resti,
in primavera e in autunno”
E in queste parole si intrecciano la vita personale, la riflessione sulla scrittura, l’amore:
“Così nascono le parole. Alleno il cuore
all’amore affinché contenga le rose e le spine.
Mistiche, le mie parole. Carnali, le mie voglie.
Non sarei quel che sono ora
se quei due, l’io e l’io femminile,
non si fossero mai incontrati.
Amore, cosa sei? Quanto tu sei
e non sei? Amore, scatena su di noi
tempeste di tuoni affinché diventiamo
l’incarnazione celeste che tu ami per noi.
(…)
Per mia sfortuna sono scampato più volte
alla morte per amore
e, per mia fortuna, continuo ad essere fragile
per farne ancora esperienza.
(…)
Alla vita dico: Vai piano, aspetta
che vuoti il mio calice fino all’ultima goccia.
Nel giardino, rose dappertutto, l’essenza di rose
è tutt’uno con l’aria”
Il poema si conclude con un cambiamento rapido di tensione e visione. L’io del poeta si scinde tra io e nemico, nella stessa fossa, nello stesso cadere. Un copione già pronto ci mette di fronte a due uomini…o lo stesso? Vediamo “vittima e carnefice riposare nella stessa fossa”.
E dunque, siamo invitati a riportarci nella risacca della splendida apertura finale, laddove la fine è un inizio, nello stesso meccanismo anticipato dal poeta nella sezione Alla stazione di un treno caduto dalla mappa. L’io si apre ad un noi, ad un futuro che non avevamo contemplato, immersi nell’ingranaggio di un passato e presente troppo vivi per dare spazio ad una ipotesi.
Quel noi o quel tu, “altro poeta”, a cui tocca o toccherà, “portare a temine questo copione”.
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